"All'interno della scena della Game Art italiana, il giovane Stefano Spera (Monza, 1983) propone una riflessione penetrante sullo statuto dell'immagine digitale nell'era della simulazione pervasiva. Diplomatosi all'Accademia di Belle Arti di Brera con una tesi dal titolo “Ricordi dimenticati. La lotta del doppio”, Spera ha trasformato la sua passione per il medium videoludico in quadri, fotografie e installazioni che mettono a tema nozioni quali rappresentazione, performance e realismo. In collaborazione con il sito GameScenes, abbiamo rivolto a Spera - che insieme a Matteo Antonini ha recentemente presentato i suoi ultimi lavori nell'ambito di Virtual Snapshot, una mostra curata da Chiara Canali presso la galleria ARTRA di Milano (21 febbraio – 15 marzo 2011) - una serie di domande sullo stato dell'Arte dei videogiochi.
WIRED: Quando e come e' nata la tua passione per i videogiochi? Nei tuoi lavori ricorrono frequentemente Call of Duty e Grand Theft Auto. Cosa ti affascina in particolare di questi titoli? Ti consideri un giocatore, un gamer, oppure la tua passione e' principalmente diretta all'estetica videoludica, al videogame come forma espressiva?
Stefano Spera: I videogiochi - e le console in particolare - sono nati con la mia generazione, fanno parte del mio DNA. Il fatto di averli visti crescere e avvicinarsi sempre di più alla riproduzione o trasfigurazione della realtà non ha fatto altro che renderli interessanti ai miei occhi. Quindi la mia passione nasce soprattutto dal desiderio di possesso come è per la maggior parte degli adolescenti, che poi negli anni è diventata interazione, maturazione del rapporto coi videogiochi, anche se posso affermare che nonostante il fascino esercitato su di me, non hanno mai rappresentato una vera ossessione. Parlando invece a livello di estetica ho sempre preferito i games che per certi aspetti sono una alternativa virtuale a una realtà fattuale, che poi guarda caso sono la maggior parte dei giochi di successo, soprattutto degli ultimi anni.
Stefano Spera, Gran Theft Auto, 2009, olio su tela, 120 x 100
Mi riferisco alle grandi saghe come quelle di Call of Duty, un FPS bellico che ricalca fedelmente dalle grandi battaglie della seconda Guerra Mondiale alla guerra & guerriglia contemporanea o Gran Theft Auto, che simula la vita di un comune delinquente impegnato in missioni criminose di qualunque genere. Questi videogiochi rappresentano valvole di sfogo dalla realtà quotidiana o dei pagliativi della stessa. Luoghi virtuali dove è permesso trasgredire le regole della società reale senza doverne poi pagare le conseguenze della stessa, e dove per assurdo perfino la morte viene anestetizzata dalla semplice pressione sul tasto di riavvio del gioco.
In un certo senso quello che mi ha colpito di questi videogiochi, e che mi ha spinto a parlarne nei miei lavori, è proprio il fatto che si tratta in fondo di simulatori o rituali di perfezionamento dove l’uomo può a differenza della vita reale ripetere esperienze o fare errori.
WIRED: Che ruolo riveste la tecnologia digitale nella tua riflessione artistica? Come ti rapporti ai mille schermi che ci circondano, dalla televisione all'iPhone?
Stefano Spera: Sono molto attento a quello che mi circonda, alle mille manifestazioni della tecnologia che in fondo non è altro che uno sviluppo e un ampliamento del nostro mondo sensibile, anche se sono convinto che l’effetto per certi aspetti sia controproducente. Questi mezzi permettono di connetterci a tutto e a tutti e di vivere esperienze mediatiche e private a livello globale, ma altresì ottundonole nostre esperienze percettive dirette. Inevitabilmente si creano dei filtri tra noi e la realtà e chi ci circonda.
Stefano Spera, the Symbolic Exchange (Think to Play), dettaglio, Materiali vari, Altro, 250x150x110cm, 2009 300dpi
Ad esempio se pensiamo che ogni account che creiamo (mail, social network, chat ecc.) è una nuova identità con cui interagiamo con altri soggetti, esso diventa quindi un doppio parallelo o coincidente a noi, ma pur sempre un’altra forma di identità diversa da quella della realtà fattuale.
Trovo che questa abbondanza tecnologica non sia in assoluto un male a patto che essa non si sostituisca completamente alle nostre esperienze, ed è quello che più o meno ironicamente cerco di mostrare nel mio lavoro, utilizzando la tecnologia per smitizzare la tecnologia.
WIRED: In molte delle tue opere - per esempio, "War Kit" - giustapponi la guerra ripresa dalla televisione - di per se' un'immagine mediate - con un le immagini di un kit di soldatini. Il tuo intento e' ideologico o puramente estetico? Detto altrimenti: ti preme sottolineare le analogie e affinita' tra la nozione di guerra come forma di intrattenimento catodico e ludico, oppure che la guerra e' combattuta con tecnologie ludiche (cyborg, droni etc.) oppure ancora che la guerra giocata con soldatini tangibili o simulati (Call of Duty) e' il vero modello della guerra combattuta "per davvero" penso a Iraq, Afghanistan, Libia...?
Stefano Spera: Certamente nei miei lavori sono compresi vari aspetti che tu hai citato, parlando di “War Kit” più precisamente, la tela più piccola rappresenta uno scorcio di una scena di guerra, che potrebbe essere una qualsiasi immagine che vediamo tutti i giorni alla televisione o su internet, salvo poi essere smentita dalla tela più grande quasi monocroma, che nasconde la "realtà" ovvero che si tratta di un kit da modellismo statico mosso dalle mani di chi lo ha costruito.
Stefano Spera, Gran Theft Auto, 2009, olio su tela, 120 x 100
Mi piacerebbe che chi osserva i miei lavori si domandasse: quanto i media hanno influito su chi ha costruito quel kit? quanto di esperienza personale c’è dietro la riproposizione di quella scena di guerra? Potrebbe essere stata vissuta realmente? Oppure la guerra ormai è stata talmente anestetizzata dal bombardamento mediatico che è diventata equivalente a un gioco?
Stefano Spera, Desert Storm 30x84 cm olio su tela 2008
Quindi la guerra diventa un fattore personale, un giocattolo da montare e smontare come vuoi, oppure i soldatini con cui giocano i bambini, o ancora un videogioco per Playstation. Proprio sui videogiochi poi ci sarebbe ancora di più da aggiungere, nel senso che nella guerra di oggi cosiddetta intelligente e mirata(come abbiamo visto in Iraq oppure oggi in Libia), per il perfezionamento delle proprie capacità(nonché per rafforzarsi psicologicamente di fronte alle paure dell’azione) soldati e piloti utilizzano simulatori che sono progenitori o software molto similari a quelli che utilizziamo noi tutti i giorni sulle nostre console, è normale quindi che il confine tra realtà e finzione sia sempre più impercettibile.
Stefano Spera, War for Oil, olio su tela, 64x50cm, 2008
Quindi certamente c’è un intento ideologico nei miei lavori, quello di porre l’attenzione su ciò che noi diamo per scontato o di cui non ci rendiamo conto e cioè che i media o i games influenzano notevolmente la nostra vita e ciò di cui ci circondiamo. Ad esempio, è accertato che la TV o la rete ci mostra immagini di guerra e crea sentimenti o sensazioni che trovano sfoghi nei videogiochi - come Call of Duty che diventa il nostro personale contributo per sconfiggere il terrorismo - o in oggetti - sviluppando l’esigenza di circondarsi di sistemi di sicurezza.
WIRED: Ha ancora senso distinguere tra reale e virtuale, oggi? Mi sembra che la tua arte mette in discussione questa discubitile dicotomia in modo molto sottile. Che differenza c'e' tra Spera-artista e Spera-avatar?
Stefano Spera: Quello della distinzione tra reale e virtuale è il dilemma dei giorni nostri ma soprattutto del futuro, non saprei rispondere perché forse io faccio parte di una delle ultime generazioni che ha potuto vivere un passaggio tecnologico così forte dal “nulla” o comunque da una televisione molto meno invasiva e interattiva, a un coinvolgimento a trecento sessanta gradi che arriva da media di ogni tipo televisioni cellulari e soprattutto internet, che hanno sviluppato tecnologie sempre più affini e coinvolgenti rispetto alla vita reale, diventando come sosteneva il filosofo Jean Baudrillard il nostro terzo occhio, col quale amplifichiamo le nostre capacità percettive, ma allo stesso tempo appiattendo e massificando ogni fatto o notizia che nel bombardamento e marasma mediatico, che si tratti di gossip o di un fatto di guerra, assumono la stessa rilevanza.
Stefano Spera, N@ture #2, 24x24 cm, olio su tela 2010
Rispondendo alla tua domanda sarebbe un bene cercare o trovare una distinzione tra reale e virtuale, ma considerato il futuro o il progresso tecnologico è molto più probabile che questo confine sia sempre più labile. A mio parere tutto questo progresso e processo di condivisione tramite computer può dare l’illusione di amplificazione di comunicazione e di scambio tra individui, ma in realtà il fatto è che il rapporto è filtrato da una macchina, e questa macchina prenderà sempre maggiore importanza e questo porterà sempre di più ad una alienazione fisica.
Volutamente, a differenza di quanto accade solitamente, al il mio avatar(che ho chiamato ormonello) ho voluto dare il più possibile la mia somiglianza fisica con tutti i pregi e i difetti, mi sembrava che per cercare di capire ed esplorare il mondo virtuale fosse necessario mettersi in gioco con meno veli e filtri possibili, e dalle mie esperienze soprattutto su Second Life, ma anche su games come King’s Age e Travian ho capito che nonostante le molteplici possibilità di conoscenza di altri soggetti o players, alla fine non faceva altro che rafforzarsi l’isolamento. Per qualcuno, con cui ho potuto scambiare qualche opinione in merito, questa vita virtuale diventa primaria rispetto alla vita reale e subentrano problemi a livello sociologico, psicologico ma soprattutto fisico. Qualcuno resta connesso per giorni interi creandosi seri problemi nella vita di tutti i giorni.
Per questo motivo nei miei lavori, il mio avatar alla fine è quasi sempre solo, o comunque ha un forte distacco dalla realtà che decolora o tende a sbiadire.
WIRED: Oltre a pittura e fotografia, pensi di lavorare con il video in futuro? Cosa ne pensi di machinima?
Stefano Spera: Si mi piacerebbe lavorare anche con il video, ma non per forza con il machinima, che trovo un’esperienza interessante, ma che resta un po’ fine a se stessa, nel senso che non esce dal mondo virtuale ma ne rimane vittima è una finzione della finzione. Mi spiego meglio, un film che è di per sé la rappresentazione virtuale di un ipotetica realtà reale, nel machinima diventa una apoteosi della finzione e della virtualità risultando a mio parere perfino eccessiva. Ammetto però che per giudicarlo fino in fondo dovrei conoscerne meglio i meccanismi.
Milano Snapshot #4, 100x70 + 24x24 cm, 2010, olio su tela
WIRED: Che cosa vuol dire scattare una fotografia in un videogame o in mondo virtuale come Second Life? O scattare una foto di un videogame o in mondo virtuale come Second Life?
Stefano Spera: C’è una forte differenza tra scattare una foto “su” Second Life oppure “in” Second Life, perché presuppone che se uno fa una fotografia su Second Life vuol dire che si sente esterno o non coinvolto dal software, c’è una consapevolezza diversa. Nel mio caso nei lavori che ho fatto su SL ho voluto fare entrambe le cose, nella fase di esplorazione ho fatto scattare al mio avatar una serie di foto per fermare un momento esatto dell’esplorazione e dopo ho scattato io le foto alla situazione coincidente a quel accadeva intorno nella realtà durante il momento dell’eplorazione. Volevo mettere in risalto lo straniamento e la diversità delle due realtà.
Duomo Snapshot #2, 70x24 + 24x24 cm, 2010, olio su tela
Scattare una foto in Second Life o in un videogame ha una valenza duplice, innanzitutto si è dentro un meccanismo quindi io in quel momento si è mentalmente dentro un altro mondo e si ha una fisicità diversa che è quella del proprio avatar, ma allo stesso tempo e in maniera direi quasi inconscia c’è l’aspetto di disporre dell’avatar (che è una nostra proiezione o doppio) in maniera completa e libera diventando padroni completi del proprio destino una sorta di super-Io o Dio che è in grado di comandare o decidere il destino a proprio piacimento.
In un certo senso lo scatto in SL o di un videogame diventa una specie di cronaca dei miti moderni in quanto in questi mondi virtuali per lo più si riproiettano le mancanze del reale." (Matteo Bittanti, WIRED)
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Intervista a cura di Matteo Bittanti
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