"Game Art Worlds: The Early Years" is an ongoing series curated by Mathias Jansson on the pioneers of Game Art. It features interviews with seminal artists that changed the landscapes of Game Art. Our goal is to illustrate the genesis and evolution of a phenomenon that changed the way game-based art is being created, experienced, and discussed today.
Nato a San Benedetto del Tronto (AP) nel 1981, dove vive e lavora, Riccardo Amabili e’ un giovane artista italiano che usa i videogame come forma di espressione tecnica ed estetica. La sua opera piu’ nota, “Game Over”, un Pac-Mandi un metro cubo, e’ attualmente visibile nei corridoi dell’Accademia di Bologna, come finalista del premio nazionale delle Belle Arti indetto dal MIUR. Prima della mostra bolognese, Amabili aveva esposto galleria G7 di Bologna, in occasione della mostra “Rubik3″, curata da Alberto Zanchetta. Amabili pone al centro della sua riflessione un lavoro di ricerca e d’indagine iconografica sui videogiochi low-res: questa indagine eleva il pixel – l’unità elementare dell’immagine digitale – ad elemento fondante dell’opera. Nei primi dipinti dominano pixel di grandi dimensioni che rendono il soggetto raffigurato poco identificabile, prossimo all’astrazione. Nei lavori più recenti la ricerca di Amabili si orienta verso gli elementi distintivi dei videogiochi, i loro spazi, convenzioni, stile e struttura, mentre la dimensione dei pixel tende a diminuire concedendo all’organizzazione dell’immagine una resa più figurativa. All’attivita’ di Game Artist, Amabili ha affiancato quella di game artist: lavora infatti come grafico nella casa di produzione che ha fondato insieme a Paolo Taje’, Bloody Monkey Software. Abbiamo discusso con Amabili di Game Art, Pixel Painting e percezione sociale del videogame.
GAMESCENES: Puoi presentarti, sinteticamente? Puoi descrivere brevemente il tuo percorso artistico, estetico e culturale? Quando e soprattutto perche’ hai cominciato la tua esplorazione di arte ludica? Ovvero perche’ il game e non altri media?
Riccardo Amabili: La maturità scientifica l’ho conseguita a 19 anni, quella artistica la sto ancora cercando… sto anche cercando di terminare gli studi all’accademia di belle arti di Urbino (la seconda laurea, quella lunga). Fin dalla tenera età sono sempre stato abituato ad affiancare al disegno su carta quello realizzato al computer, ai tempi del Commodore 64 utilizzavo programmi come KoalaPainter o GeoPaint. Sempre da piccolo disegnavo spesso figure che mi divertivo a trasporre sugli sprite editors… conservo ancora dei rudimentali concept-art dell’epoca. Prima degli studi artistici ho disegnato fumetti per svariate pubblicazioni locali, regolarmente disegno tavole per tornei ufficiali di giochi di ruolo e ultimamente nella Bloody Monkey Software ho coronato uno dei miei sogni d’infanzia occupandomi di videogiochi e soprattutto di grafica.
GAMESCENES: Qual e’ la tua definizione personale di videogame?
L’ottava arte, certo è un dibattito ancora aperto… Se nell’arte visiva le contaminazioni sono diventate uno standard, tanto che l’intervento del fruitore è stato già accettato dalla fine degli anni ’50 e la tendenza a usufruire dei mass-media è ormai consolidata, perchè i videogiochi non entrano alla biennale? Secondo me i videogames soffrono la stessa sorte dell’album musicale e del fumetto, vincolati alla loro forma ibrida di prodotto commerciale ed artistico; credo che la loro produzione in serie, la loro riproducibilità estrema, determini una svalutazione del senso artistico, ammesso che ci fosse nelle intenzioni iniziali dell’autore.
GAMESCENES: Perche’ Pac-Man? Perche’ uno sprite di pochi pixel ha una dimensione naturale di un metro cubo? Pac-Man era davvero una metafora del videogame come forma di dipendenza da farmaci – o droghe?
Riccardo Amabili: Perchè grande un metro cubo può divorare un essere umano! A parte questo… “Game Over”, l’opera di cui stiamo parlando, deriva da un mio progetto più ambizioso: un labirinto grande abbastanza da essere percorso da molta gente, costruito esattamente nello stile del primo livello di Pac-Man, magari con tubi al neon, i classici fantasmini e i bonus vari da raccogliere. Una performance di massa dove lo spettatore e il videogiocatore si fondono in uno spazio reale. Non so se Pac-Man davvero sia una metafora della dipendenza da pasticche, mi vengono in mente alcuni lavori di Damien Hirst (brrr)… forse dopo più di venti anni ci vediamo questo. Posso dirti però che “Game Over” è una metafora della morte della bidimensionalità videoludica, un Pac-Man tridimensionale non può e non deve esistere!
GAMESCENES: Conosci il progetto Pac-Mondrian? Che ne pensi?
Riccardo Amabili: Lo conosco, Pac-Mondrian asseconda in parte le mie riflessioni sull’arte e sul videogioco. E’un’operazione interessante che va a sottolineare il messaggio artistico dei giochi di un tempo, messaggio che abbiamo ignorato pensando a quelle immagini pixelate come a un effetto delle limitate prestazioni grafiche del tempo. La grafica di questi videogiochi vintage è stata un esempio di stile con uno sguardo più o meno consapevole verso i maestri dell’astrazione e del concettuale. La prima cosa che ho pensato sentendo la musica di Pac-Mondrian: non erano proprio quei motivetti di musica classica, jazz o blues a fare da colonna sonora ai primissimi videogames?
GAMESCENES: Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo dell’arte?
Riccardo Amabili: Dell’arte prediligo tutto quello che ritengo valido in termini di risultato estetico, non disdegno le installazioni o le opere concettuali ma in definitiva continuo ad essere affascinato dalla forma e dal colore. Sicuramente uno dei capisaldi di riferimento per la mia ricerca artistica (soprattutto tecnica) è stato Peter Halley; i suoi quadri degli anni ottanta somigliano molto agli schemi dei videogiochi primordiali. Accanto a Peter Halley, sempre per quello che riguarda il piano tecnico, posso menzionare artisti come Alighiero Boetti (pensando ad “Alternando da 1 a 100 e viceversa”), Julian Opie, Frank Stella, Eliezer Sonnenschein, Roy Lichtenstein, lo stesso Mondrian e i fautori dell’astrattismo geometrico.
Puoi definire i canoni del pixel painting?
Riccardo Amabili: Il canone essenziale di questa pittura si fonda sul pixel, intendo una pittura che si interessa del pixel come scelta estetica di rappresentazione. Nei miei quadri il pixel è come la tessera del mosaicista, tramite una pittura piatta dai contorni rigidi imito la griglia di composizione dell’immagine bitmap. Inizialmente ingigantivo i pixel portandoli all’esasperazione, riducendo quindi l’intelligibilità del soggetto che figuravo, diventavano loro i veri protagonisti insieme al colore e ai meandri che formavano sulla tela. Ultimamente mi sono spinto ad amplificare il gusto per il particolare, mutando le scelte dei materiali ma conservando il pixel come entità minima. Quando anni fa iniziai a sperimentare una pittura del pixel era difficile trovare arte che si occupasse di videogiochi, c’erano pochi “colleghi”, diciamo che la mia ricerca è partita dalle esperienze personali… è dall’epoca del commodore che mi dedico ai videogiochi: ci gioco, li modifico, e ultimamente (con Paolo Tajè) li faccio. In poche parole la ricerca che sta alla base di tutti i lavori è nata da una riflessione sulla storia dell’arte e sulla storia del videogioco, è successo tutto quando nella mia mente i quadri di Mondrian e lo schema di Pong sono coincisi. L’arte tende progressivamente a forme sintetiche e da molto tempo ha abbandonato la dipendenza dalla figurazione, il videogioco inversamente è partito dalle geometrie primitive e ora sta per arrivare al fotorealismo (con le dovute eccezioni).
GAMESCENES: Trasformare l’immagine elettronica – che e’ per definizione transeunte – in un’immagine fissa – desiderio di fissare il momento oppure di dare permanenza al fluido? il quadro come un frame freezato, in pausa?
Riccardo Amabili: Non sono interessato alla rappresentazione dell’immagine elettronica, ma dipingo l’illusione ottica che essa ci presenta. In effetti la prima sensazione che si ha guardando una mia tela è questa forte distanza tra la tecnologia del soggetto e quella del supporto. Per la prima fase del lavoro parto da screenshot, a volte sono effettivamente freeze di una schermata, a volte sono creati da me ex novo; i miei quadri sono quindi un simulacro di quella che è l’immagine elettronica originale. Lavorare con la pittura significa avere a che fare con un spazio bidimensionale che esclude il movimento, tutto quello che è stato fatto per rendere cinetica la pittura si basa su teorie e illusioni ottiche (come sperimentò il futurismo).
GAMESCENES: Qual e’ la percezione della Game Art in Italia, a tuo avviso?
Riccardo Amabili: In Italia il videogioco è considerato ancora un semplice passatempo, le poche attenzioni che gli si prestano spesso si limitano alle retoriche polemiche sulla violenza. Poche volte vengono esplorate quelle strutture complesse che danno forma al videogame, e la Game Art sembra indagarle in modo soddisfacente. La Game Art tiene conto di tutti gli aspetti dei videogames, è un’arte eterogenea sia per i contenuti che per i mezzi espressivi ed è per questo che la sua collocazione all’interno di uno spazio espositivo tradizionale risulta problematica. Non credo sia necessario trasformare i musei in una sorta di sale giochi, basterebbe mantenere una piccola distanza tra opera artistica e opera multimediale, in modo che nel pubblico non sorga il dubbio: “Ho a che fare con un videogioco artistico oppure con un opera d’arte videoludica?”.
Testo: Matteo Bittanti
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