"Game Art Worlds: The Early Years" is an ongoing series curated by Mathias Jansson on the pioneers of Game Art. It features interviews with seminal artists that changed the landscapes of Game Art. Our goal is to illustrate the genesis and evolution of a phenomenon that changed the way game-based art is being created, experienced, and discussed today.
Damiano Colacito, Face of Doom, urban projection, 2007
La riflessione di Damiano Colacito si concentra sul mediascape contemporaneo, nelle sue declinazioni piu’ eterogenee. Una delle principali preoccupazioni dell’artista poco piu’ che trentenne e’ la fenomenologia dei media, il visibile ed il rapporto tra rappresentazione e realta’.
Nella seconda meta’ degli anni novanta, Colacito comincia a collezionare i flussi di immagini provenienti dalle webcam collegate alla rete e ne riproduce alcuni quadri sulle antenne paraboliche, portale tra il dentro e il fuori, il vicino e il lontano. Quindi, nel 2001, pone a tema la liasion incestuosa tra tecnologia e religione con una installazione dal titolo W.W.W. composta da un oggetto da lui appositamente costruito in legno tamburato (una sorta di “inginocchiatoio-mouse’, denominato appunto Kneeler Mouse). Genuflettendosi, l’utente attiva un computer sul quale e’ stata memorizzata una funzione religiosa diffusa in rete. W.W.W. viene presentata a Bologna nel corso della manifestazione INTERCITY.
Sempre nel 2001, Colacito presenta, per il terzo anno consecutivo, una stampa a grandezza naturale intitolata Messiah che viene incollata sulla pavimentazione dell’atrio centrale della stazione ferroviaria di Bologna. L’area fisica dell’atrio si trasla nel desktop virtuale di un computer: Messiah riproduce in scala il cursore a forma di clessidra del puntatore del mouse. Il culto tecnologico nella sua espressione messianica e salvifica. Tecnologia/teologia/teleologia.
Colacito crea corto-circuiti epistemologici giustapponendo l’ultramoderno e il passato remoto. Nel 2002, l’artista prende parte alla mostra collettiva Beyond the Edge installando antenne paraboliche all’interno delle antiche sale della Rocca Malatestiana di Montefiore Conca.
In tempi piu’ recenti, Colacito fa ricorso al medium videoludico. La sua prassi artistica e’ paragonabile a quella del tedesco Aram Bartholl, in quanto consiste nel dare forma tangibile a cio’ che, per definizione, e’ transeunte e fluttuante. Colacito e’ particolarmente affascinato dallo sparatutto in soggettiva, un genere videoludico in cui si realizza una perfetta fusione tra visione e distruzione. L’FPS, come abbiamo scritto altrove, rappresenta il punto di arrivo di un’evoluzione dell’ottica e dell’aptica. Ha dichiarato Colacito: “La storia della tecnologia occidentale è la storia del perfezionamento della visione fisica, più che metafisica, come accade in altre culture. Vedere che corrisponde ad un guardare che è già voyeurismo” (Damiano Colacito in un’intervista rilasciata a Luca Panaro). Nello sparatutto in soggettiva, tuttavia, la dimensione del voyeurismo lascia spazio al protagonismo fallico dell’occhio che uccide. Il solipsimo dell’eye-for-an-I.
In occasione della collettiva “AC/DCC”, Colacito presenta una serie di oggetti ‘tratti’ da Return to Castle Wolfenstein (2001), seguito/remake di Wolfenstein 3D. Parlando del capostipite degli FPS nel volume antologico Gamers (Mondadori, 2006), Alessandra C. ha scritto: “Ho finito Wolfenstein 3d in una notte. Ho mangiato sbobba per cani per recuperare punti vita, ho scoperto passaggi segreti zeppi d’armi e munizioni e sono arrivata al boss finale alle cinque e venti del mattino. Lo scontro A. Hitler vs. BJ Blazkowicz, fortezza di Wolfenstein vs. Texas, non si ridusse a un’epica battaglia, ma rappresento’ la genesi del mio nuovo immaginario” (p. 354). Colacito ha dato forma concreta a questo immaginario, restituendo consistenza materica alle armi, oggetti e scenari di Return to Wolfenstein. Ha prodotto med-kit, fucili e carriarmati a grandezza ‘naturale’.
Il videogioco, per sua natura, tende a uscire dallo schermo per colonizzare il mondo tangibile: Colacito sembra voler accelerare un fenomeno inevitabile. Per l’happening artistico collettivo WG’S (settembre-ottobre 2006) Colacito (ri)costruisce la barricata di un videogame all’interno di un appartamento nel centro di Reggio Emilia. L’ennesima conferma che l’estetica di Call of Duty ha lasciato un segno profondo nella psiche collettiva.
Damiano Colacito è nato nel 1973 ad Atri (Te). Vive e lavora tra Bologna e Pescara.
Damiano Colacito, uno dei protagonisti delle scene della Game Art italiana, e’ impegnato in un nuovo affascinante progetto intitolato “Face of Doom”. La riflessione di Colacito sul medium videoludico ora si concentra sul ruolo e sull’estetica dell’interfaccia e dell’HUD (acronimo di “Heads-Up Display”) dopo le precedenti escursioni nei luoghi e negli immaginari digitali di Wolfenstein.
Ancora una volta, Colacito ‘gioca’ con i first-person shooter, un genere che secondo l’artista e’ capace di attivare emozioni profonde nei giocatori “tutte quelle che si hanno quando dopo molte ore di gioco consecutive esci da quel mondo e vai in cucina a prendere un bicchiere d’acqua ed hai ancora la sensazione di essere là” (Damiano Colacito, 2006).
“Face of Doom” e’ un’installazione outdoor che consiste in una proiezione dell’interfaccia di Doom su quel che resta dell’Hotel Europa in Branilaca Sarajeva Zelenih Beretki. “Face of Doom” ha inaugurato il XXIII International Festival of Sarajevo. Damiano scrive:
“Ciao Matt,
ti scrivo da un internet point di Sarajevo. Qui accanto ci sono bambini che giocano sulle stesse cigolanti altalene su cui mi ero dondolato in un momento di tregua suHalf-Life 2. Sarajevo con i suoi distretti colpiti e sbrecciati, misti fra lo stile ottomano, quello austro-ungarico e le suburbie socialiste, e’ quindi la mia nuova City 17. Sono qui invitato con altri artisti europei, per un evento collegato alla Biennale del Mediterraneo: il Winter Festival of Sarajevo 2007. Lunedi’ al tramonto proiettero’ sulla facciata dell’Hotel Europa, sventrato durante la guerra, l’HUD del DoomGuy, La registrazione per immagini consequenziali, montata in un video e circoscritta al solo viso di Flynn, di una partita a Doom II. Il video in loop diventera’ la metafora del ciclo della vita-health, da 100% a 67% a 14% per ritornare di nuovo a pieno, di Sarajevo in una sorta di autoritratto collettivo” (Damiano Colacito).
L’interfaccia – com’e’ noto – rappresenta una delle marche di riconoscimento specifiche del linguaggio videoludico – al punto che l’ipotesi di renderla trasparente o invisibile (come avviene in Peter Jackson’s King Kong: The Official Game of the Movie, per esempio) ha mandato su tutte le furie, tra gli altri, David Jaffe, il designer di God of War. In un certo senso, l’interfaccia grafica sta al videogame come il montaggio al cinema (Per ulteriori riflessioni sul concetto di interfaccia nei videogame, consiglio la lettura di questo ottimo articolo apparso su GamaSutra).
In Doom, l’icona del volto del protagonista riflette ed esprime il suo stato di ‘salute’: subendo danni, l’espressione si fa corrucciata e sofferente. Nei videogame, ogni stato e’ quantificabile, misurabile e visualizzabile: Colacito trasforma questa convenzione linguistica in una metafora dell’evoluzione cittadina, in questo caso, Sarajevo.
Quella che segue e’ una conversazione epistolare con Damiano Colacito:
Perché l’HUD?
Damiano Colacito: Per decenni intere generazioni hanno utilizzato nel definire il proprio stato fisico e mentale, espressioni linguistiche nate nel mondo della meccanica; l’automobile e le sue componenti si avvicinavano bene alla struttura ed alle funzioni del corpo umano. “Ho le batterie a terra” mi sono sentito ancora dire poco tempo fa dal signor Gosetti, meccanico di Brescia.
Eppure un nuovo immaginario affiora dalle esperienze videoludiche, Parlando in voip con un amico, alla medesima domanda mi ha risposto “I’ve the life on foot” riferendosi alla barra di energia di un game frequentato online. Le Hud nate come semplici segnali informativi della navigazione nello spazio digitalizzato divengono simboli di uno stato dell’esistenza.
Vero e proprio diaframma bidimensionale, posto tra l’io fisico intento a manovrare le periferiche di gioco e l’io immerso nel sempre più solido e tangibile spazio tridimensionale, le HUD si manifestano come allucinazioni organizzate, concrete e private; come d’altronde sempre privata é l’esperienza di gioco che prevede un solo uomo per ogni periferica.
Perché Doom?
Come tu ben sai in Doom -uno dei primi giochi in modalità FPS – significativa importanza aveva avuto l’idea di porre nella parte centrale dell’hud, come indicatore dello stato della salute, il ritratto del protagonista (Flynn Taggart) interpretato dal giocatore. La strutturalizzazione e la visualizzazione delle HUD era giustificata dalla trasposizione degli stessi dati che Flynn visualizzava all’interno del suo casco protettivo (un espediente che venne ripetuto e marcato anche per la tuta di Gordon Freeman in Half-Life.
Quel viso animato dunque era la registrazione in diretta di ciò che non sarebbe stato possibile rappresentare altrimenti: la prova della concreta esistenza di uno uomo nell’avverso spazio videogiocabile. Quella animazione attestava la sua circospezione, il suo accanirsi , disperarsi e gioire.
In un gioco di rimandi, tra soggetto della rappresentazione ed oggetto rappresentato, era possibile intuire che in quella ripresa in diretta, il ritratto coincideva con il giocatore al di là dello schermo. Il ritratto di Flynn Taggart non era altro che il ritratto del giocatore stesso allo specchio (a supporto di questa tesi vedi anche lo spot per la nascita della DirectX dove Bill Gates intento a giocare a Doom su Win 95 sostituisce al ritratto di Flynn il suo).
Il “Doomguy” come unica eccezione di “life-bar” non solo numerica ma impersonificata diviene quindi un primo esempio di ritratto contemporaneo.
Qual e’ la logica sottesa a “Face of Doom”?
A differenza degli elementi tridimensionali che compongono lo spazio percorribile dei videogame, le hud non sono percepibili come oggetti, ma proiezioni “on-display” di un esistere videoludico che diviene coscienza.
“Face of Doom”; è la registrazione per immagini consequenziali, montate in un video e circoscritte al solo viso di Flynn, di una mia partita a Doom II. Il volto del Doomguy, separato dal resto della HUD, riappare svincolato dalle dinamiche del gioco. Simile per la sua essenzialità ad un’icona, ed affine al quadrante contagiri di un’auto, conserva altresì le sue proprietà di rivelatore di un’esperienza vissuta.
Per queste ultime nuove caratteristiche “Face of Doom” doveva abbandonare il monitor proponendosi in un ambito reale; era quindi necessario farlo apparire come un grande totem, un ampio segnale pubblico e video-proiettabile.
Perche’ Sarajevo?
Con questo bel progetto in tasca, sono volato a Sarajevo, invitato come artista a realizzare un lavoro nell’ambito del XXIII Festival di Sarajevo “Some Other City”. Per la riuscita di questo intervento urbano il video doveva incontrare una idonea superficie che bagnata dalla proiezione divenisse il nuovo spazio dell’HUD.
Le mura dello storico Hotel Europa, oggi in restauro, simbolo di una città in ricostruzione, si sposavano bene con l’idea cardine di un’esistenza sinusoidale che caratterizzava sia “Face of Doom” che la città stessa.
La mia caparbietà e l’organizzazione del festival ha creduto e reso possibile la realizzazione del progetto , mettendomi a disposizione materiali e tecnici necessari.
Come scrivevo nella presentazione del progetto inviata alla commissione un mese fa: “La proiezione in grande dimensione di una Health-bar in un luogo pubblico nella città di Sarajevo, trasforma la visualizzazione segnaletica di energia a disposizione del singolo giocatore di videogame nel simbolo di uno stato di salute collettivo.
Il cittadino diviene simbolicamente protagonista consapevole del moto ciclico del Gioco della Vita. Al pari di un termometro pubblico che restituisce la reale temperatura atmosferica, quest’altro indicatore allude ad altre possibili risorse metafisiche che sono metaforicamente a nostra disposizione”.
Testo: Matteo Bittanti
LINK: Damiano Colacito
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