"Game Art Worlds: The Early Years" is an ongoing series curated by Mathias Jansson and Matteo Bittanti on the pioneers of Game Art. It features interviews with seminal artists that changed the landscapes of Game Art. Our goal is to illustrate the genesis and evolution of a phenomenon that changed the way game-based art is being created, experienced, and discussed today.
Nato a Brema il 27 dicembre 1972, Aram Bartholl, vive e lavora a Berlino dal 1995. Dopo aver ottenuto una Laurea in Architettura presso la University of the Arts UdK con la tesi “Bits on Locations” – grazie alla quale vince il concorso Browserday nel 2001 – Bartholl ha svolto attività di praticantato presso l’agenzia MVRDV di Rotterdam. Come assistente universitario, ha lavorato a numerosi progetti accademici sotto la guida di Phillip Oswalt, Wilfried Hackenbroich e Anna Klingmann. Aram Bartholl è un membro permanente dell’Urban Media Salon fondato da Mirjam Struppek e partecipa ogni anno al congresso del Chaos Communication Club (CCC) di Berlino. Aram Bartholl lavora come freelance concept creator e designer per MVRDV, DMC, Fraunhofer Institut Fokus, Institut for Electronic Business e City & Bits. Questa conversazione si è svolta nel settembre 2006 via email tra Matteo Bittanti e Aram Bartholl.
GameScenes: Qual è la tua relazione con i videogiochi? Ti consideri un videogiocatore? In caso affermativo, quali sono i titoli e generi che preferisci?
Aram Bartholl: Sono cresciuto in compagnia dei computer e ho passato molto tempo con un Commodore 64, un Atari ST e numerose generazioni di personal computer sin da quando avevo dodici anni. I videogame sono sempre stati una parte importante della mia adolescenza. Sì, mi considero un videogiocatore a tutti gli effetti, per quanto oggi il tempo a disposizione per giocare sia estremamente limitato, specie da quando sono diventato padre e ho cominciato a lavorare come freelance nel 2001. Ma continuo a seguire gli sviluppi del mercato per mezzo della stampa specializzata e ad internet, e continuo ad aggiornare il mio hardware per poter giocare alle ultime novità. Alcuni dei miei videogame preferiti di tutti i tempi sono Thrust, H.E.R.O., Elite, Bards’ Tale, Wasteland, Rally Speedway, Maniac Mansion, Dungeon Master, System Shock, Duke Nukem, Half-Life, Counter Strike, Half-Life 2.
GameScenes: A partire dal 2004, hai dato vita a svariate performance videoludiche. Per quanto differenti, tutti i tuoi interventi sono accomunati da temi ricorrenti, come l’inserimento di elementi videoludici in contesti ‘reali’. Hai infatti creato situazioni “autentiche” che, inesplicabilmente, presentano elementi provenienti dall’immaginario dei videogame. Nella serie “Computer Game Objects”, per esempio, hai affrontato direttamente la nozione delle convenzioni del medium elettroludico. Quali erano i tuoi obiettivi? Qual è stata la reazione degli spettatori e dei critici alle tue opere? Ritieni di essere riuscito a raggiungere i risultati che ti eri prefissato?
Aram Bartholl: Quello che mi propongo di fare attraverso i miei lavori – non solo con la serie “Computer Game Objects” – è (re)introdurre comportamenti, caratteristiche e principi dello spazio digitale all’interno del mondo fisico e analogico. Le origini di questo progetto sono presto spiegate. Sto vivendo una relazione conflittuale con il computer. Da un lato, si tratta di una macchina straordinaria che mi consente di creare tutto quello che desidero nella dimensione digitale. Grazie al computer, posso creare infinite copie digitali e, per mezzo di internet, posso collegarmi in qualsiasi posto del mondo, in barba ai vincoli spaziali. Dall’altro lato, il computer divora letteralmente il mio tempo, costringendomi ad occuparmi di cose di cui farei volentieri a meno. L’oceano di possibilità che scorgo di fronte a me è talvolta dispersivo: finisco per distrarmi, anziché concentrarmi sul lavoro. Da anni, ormai, passo le mie giornate di fronte agli schermi dei computer. I CD-ROM che ho masterizzato cinque anni fa non funzionano più. Molti progetti che ho realizzato durante i miei anni scolastici sono semplicemente evaporati nel nirvana digitale. Numerosi lavori che produco al computer, specialmente nell’ambito della grafica tridimensionale, diventano obsoleti nel giro di sei mesi. Mi sembra di dover rifare sempre tutto daccapo, ogni volta. Con la serie “Computer Game Objects” metto a tema la nozione di realtà. Dopo tutti, oggigiorno abbiamo a che fare continuamente con differenti piani di realtà. Con le mie opere cerco di collegarli tra loro in modo inaspettato. Trasferisco elementi, comportamenti ed oggetti che presentano caratteristiche peculiari all’interno dei videogame nel mondo reale. All’inizio avrei voluto rendere interattivi questi oggetti videoludici, ma la loro semplice esistenza nello spazio fisico è sufficiente per generare effetti destabilizzanti. Penso alle casse di Counter-Strike del mio lavoro “de_dust”: questi oggetti sono familiari a tutti i fans dello sparatutto in soggettiva. Pensiamo a quante decine di migliaia di utenti le hanno usate per ripararsi dai colpi avversari, oppure ci sono saltati sopra. Nel momento in cui posiziono le medesime casse sui marciapiedi di una città, il risultato è sorprendente: diventa chiaro che i vari piani di realtà sono connessi tra di loro a livello cognitivo, non fisico. Ergo, il passaggio da un mondo all’altro manda in crisi il nostro modo di comprensione del mondo. Ovviamente le reazioni variano a seconda del fatto che gli spettatori di queste opere siano giocatori o meno. I miei genitori, per esempio, comprendono il senso ultimo della mia ricerca, per lo meno a livello concettuale, laddove un giocatore che si imbatte per la strada, in modo del tutto casuale, in uno o più oggetti del suo gioco preferito, lo riconosce immediatamente. In questo caso, le reazioni sono per lo più entusiastiche.
GameScenes: Uno dei termini più abusati nei circoli videoludici è “realismo”. Designer, giocatori e recensori amano enfatizzare la natura “realistica” dei giochi digitali, sottolineando che i confini tra il mondo reale e quello virtuale vanno ormai assottigliandosi, per usare un altro cliché. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il realismo videoludico è semplicemente un sinonimo di fotorealismo cinematografico e televisivo. In altre parole, un videogioco è considerato realistico nella misura in cui si approssima agli standard estetici definiti dalle industrie culturali dominanti, dal cinema alla televisione. Molte delle tue opere tematizzano la dicotomia tra queste due nozioni di realismo (realismo di tipo mediale vs. realismo di tipo fenomenologico, se così possiamo definirlo). Qual è la tua personale definizione di “realismo”?
Aram Bartholl: Noi spendiamo gran parte delle nostre giornale nei mondi digitali. Si tratta di spazi enormi e dilatati, e tuttavia non siamo pienamente consapevoli della portata del fenomeno. Non mi riferisco solo ai videogame: anche le nuove tecnologie della comunicazione e i computer sono parte integrante della nostra esistenza. Ma dove sono davvero questi spazi digitali? Non si possono vedere, toccare o sentire nella realtà. Noi passiamo le nostre giornate a fissare degli schermi. Il mondo virtuale sembra essere perfettamente integrato nella nostra vita, ma la verità è che la connessione tra mondo fisico, corpo e gli spazi dei dati è labile, sfuggente. Eppure, sul piano emotivo, viviamo i mondi virtuali con grande trasporto. C’è un’intera generazione di utenti che condivide ricordi comuni sui videogiochi, sul software, sull’evoluzione dei personal computer. Ti ricordi qual è stata la tua prima email? La tua prima sessione di chat? Il primo sito internet che hai visitato? Il primo videogame che hai giocato su uno schermo? Con chi hai condiviso questi momenti? Con qualcuno seduto al tuo fianco oppure con un utente collegato via internet, a chilometri di distanza? Qual è stato il tuo primo nickname? Si tratta di dettagli importanti, ricordi che ormai appartengono alla nostra realtà. A questi ‘ricordi digitali’, plasmati dai new media, si aggiunge l’influenza di media tradizionali – cinema, romanzi, televisione – che condizionano da decenni il modo in cui percepiamo il mondo. A volte mi sembra che rimanga davvero poco di specificatamente reale nella dimensione ‘fisica’… Non so se ti capita di osservare le persone nella metropolitana… Quasi tutti indossano cuffie bianche e osservano quasi rapiti minuscoli schermi… Come hai correttamente sottolineato, la questione del realismo nei videogiochi è centrale. Paradossalmente, si discute di realismo solo in termini tecnici – ci si concentra sulla qualità dei motori fisici, sulle animazioni dell’acqua o sulla modellizzazione poligonale. Trovo divertente, se non comico, il modo in cui si discute di realismo nei videogame… Una volta ho sentito una conversazione tra due tizi che conversavano animatamente sulle caratteristiche delle armi di Halo, commentando il livello di realismo di fucili laser che in ‘realtà’ non esistono, sono pura fantascienza… È una questione di punti di vista… Il termine realismo è sempre relativo e viene spesso confuso con la nozione di naturalismo. Da parte mia, anziché ricreare il mondo intero all’interno degli spazi digitali, mi interessa piuttosto la questione di importare il digitalismo – inteso come ideologia del digitale – nel nostro mondo analogico. Tiriamo fuori gli oggetti dal computer! Del resto, passiamo gran parte del nostro tempo a muovere ‘oggetti’ sullo schermo. Mi interessa studiare come il mondo analogico, a livello corporeo e sensoriale, viene influenzato dal digitale, in tutte le sue manifestazioni.
GameScenes: C’è una tua frase che mi ha molto colpito: “Sebbene i videogiochi tentino sempre di imitare il mondo fisico, ci sono sempre elementi, oggetti e comportamenti che esistono solo nel mondo virtuale”, come le casse che s’incontrano solo negli sparatutto in soggettiva, per fare un esempio – che in molti casi esistono solo per essere distrutte. Puoi espandere questo concetto, che personalmente trovo affascinante? Come definisci questa sorta di ‘impermeabilità’ tra differenti piani di realtà?
Aram Bartholl: Nella maggior parte dei casi, i mondi virtuali dei computer game tentano di imitare la realtà fisica. Allo stesso tempo, ci sono aspetti e comportamenti tipicamente videoludici che appaiono davvero bizzarri se li osservi da vicino. Un giocatore non si domanda mai perché ha vite infinite, perché esistono punti di respawn o med-kit sparpagliati nei cunicoli oscuri di un improbabile reame fantasy, per tacere degli oggetti tridimensionali che galleggiano sopra le teste dei personaggi… Trovo questi fenomeni davvero curiosi. La cassa di legno della mappa de_dust diCounter-Strike è stata costruita da uno sviluppatore di videogame. È un oggetto del mondo reale che è stato digitalizzato e ritoccato con Photoshop, prima di essere importato in un videogame. Ma in Counter-Strike, questa cassa ha un’unica funzione, una funzione tattica. I giocatori utilizzano queste strutture disseminate nei vari scenari per appostarsi, difendersi e ripararsi dai colpi dei nemici. In altre parole, le casse perdono la loro funzione primigenia nel mondo reale, che è quella di contenitori. Questi oggetti sono stati prelevati dal mondo reale e inseriti nello spazio virtuale, ma, nel passaggio, la loro funzione è stata alterata. A questo proposito, ho un aneddoto relativo al progetto ““de_dust”. Un mese fa, ho ricevuto un email da Chris Ashton, uno sviluppatore di Turtle Rock Studios, che mi ha rivelato di aver particolarmente apprezzato il mio lavoro. Si tratta, per la cronaca, dell’artista che ha creato le texture della mappa “de_dust” ai tempi della produzione del mod. Fantastico, no? La stessa persona che ha digitalizzato e ritoccato con Photoshop alcune fotografie di rivestimenti in legno che sono diventati in seguito elementi iconografici fondamentali per un’intera generazione scrive un messaggio al sottoscritto, il tipo che ha (ri)portato questi pixel “legnosi” nel mondo reale. Come dire: il cerchio si è chiuso. Ti faccio un altro esempio: le frecce luminose e animate del videogame Need for Speed Underground si ispirano chiaramente ai segnali del traffico del mondo reale, ma nella dimensione virtuale posseggono caratteristiche speciali, che non avrebbero alcun senso nel traffico ordinario. Nella città digitale, esse servono a distinguere il circuito “illegale” dalle altre strade e svolgono la funzione di barriera per l’auto controllata dal giocatore. Le vetture pilotate dal computer, invece, possono attraversare queste frecce semi-permeabili come se fossero oggetti virtuali di un mondo virtuale. I paradossi si moltiplicano… Riassumendo, sono molto interessato al mondo in cui il nostro mondo risulta influenzato dai fenomeni peculiari degli spazi digitali. Non sono il solo, beninteso. C’è un vero e proprio movimento che consiste nel riportare nella dimensione ‘reale’, tangibile, oggetti peculiari del mondo digitale. Sta diventando sempre più diffusa la pratica di ‘stampare’ in tre dimensioni personaggi e oggetti di Second Life e di altri mondi virtuali. I giocatori emulano e imitano le mosse dei loro avatar nei videogame e li documentano attraverso album fotografici e film in rete. I giochi online stanno producendo veri e propri sistemi economici autonomi. Forse tra qualche anno, le interfacce acquisteranno consistenza ontologica e non dovremo sorprenderci se sopra le nostre teste un punto di domanda si metterà a lampeggiare durante lo shopping al supermercato.
GameScenes: Nell’opera/performance “DIY” (2004) – che usa The Sims come fonte di ispirazione – individui in carne e ossa se ne vanno in giro per la città con dei rombi tridimensionali sopra la testa, seguendo l’esempio degli avatar del celebre videogame. Mi domando quanti pedoni per le strade abbiano colto la citazione, il riferimento… Qual è stata la loro reazione?
Aram Bartholl: The Sims è particolarmente interessante dal momento che tenta di riprodurre fedelmente le dinamiche della nostra vita quotidiana. Ergo, trasferire l’intero gioco nel mondo fisico è veramente semplice. Basta costruire questo cristallo verde che galleggia sopra il capo dei vari personaggi e tenerlo sospeso sopra le teste di ‘veri’ individui. Quando i pedoni che hanno familiarità con il videogame vedono i rombi ambulanti per la strada, cominciano immediatamente a pensare ai “bisogni” del personaggio e a come “controllarlo”. Le domande sorgono spontanee: Cosa sto facendo fare al mio personaggio? Cosa voglio veramente? Chi mi controlla? La parte più importante del progetto è il workshop nel quale è possibile crearsi il proprio cristallo di cartone e sperimentare sulla propria pelle cosa significa essere un Sim. Quando un giocatore vede qualcuno che “indossa” questo oggetto mentre cammina per la strada, coglie immediatamente il senso dell’operazione. Altri probabilmente penseranno che si tratta, ancora una volta, di artisti folli berlinesi che fanno cose assurde.
GameScenes: In “First Person Shooter” (2006), avverti i possibili utenti dei tuoi occhiali FPS che “l’uso prolungato può provocare dei comportamenti imprevedibili”. Si tratta di un messaggio puramente ironico, oppure vuoi suggerire che il consumo di giochi violenti può effettivamente portare a reazioni violente nel mondo ‘reale’? Oppure ancora vuoi sottolineare la natura offensiva dello sguardo, in particolare dello sguardo maschile?
Aram Bartholl: “First Person Shooter” ha riscosso un buon successo in rete negli ultimi due mesi. Ovviamente, si tratta di una provocazione e di un commento alla violenza dei computer game. Ma, ancora una volta, l’enfasi è sull’interscambio tra differenti piani di realtà che quest’opera inevitabilmente mette in gioco. Intendo dire: per un gamer è del tutto normale che ci sia un braccio, un’estermità che si muove in perfetta sincronia con la sua testa. Ogni volta che muove il mouse, il braccio resta sempre lì, sullo schermo, in primo piano. Abbassare il braccio non è un’opzione contemplata… I miei occhiali FPS ripropongono la medesima logica nel mondo reale. L’arto resta sempre di fronte agli occhi e segue il movimento del capo… È concepito come un braccio che si allunga nel mondo reale ma che, allo stesso tempo, è autonomo rispetto al corpo, come se fosse dotato di vita propria. Gli occhiali riproducono questo meccanismo bizzarro. Il braccio di fronte ai nostri occhi non è condizionato dal movimento del nostro arto reale, il che crea effetti di dissonanza cognitiva. Ma ci sono altri aspetti legati a questo progetto. Per esempio, la natura insieme pubblica e privata della fruizione videoludica. Giocare ai computer game è un’attività che si svolge per lo più nella dimensione privata, ma allo stesso tempo si gioca spesso su server pubblici… In particolare, gli FPS sono, da un certo punto di vista, delle dichiarazioni pubbliche. Giocare a un FPS significa affermare: “Sì, io sono un giocatore”. Ma, ancora una volta, si tratta di uno spazio pubblico molto ‘privato’: il giocatore vede l’azione attraverso i propri occhi e la propria arma. La violenza si genera solo a livello mentale… Quello che intendo dire è che non credo che la fruizione di videogame violenti possa istigare comportamenti asociali nella vita ‘reale’. I due mondi sono così differenti che nessuno potrebbe confonderli. Per rispondere alla tua domanda, le reazioni degli spettatori a questa opera sono generalmente positive. La maggior parte dei visitatori capiscono che il disclaimer è un commento ironico sull’intera questione. Giocare ai videogame violenti non conduce alla violenza, ma passare troppo tempo di fronte a uno schermo può farci dimenticare la nostra concretezza e quella dell’ambiente circostante.
GameScenes: Il gioco di corsa Need for Speed ha già fornito a diversi artisti più di uno spunto per riflettere sul concetto di velocità, guida e di interscambio tra realtà e simulazione. Penso, in particolare, allo scheletro della carrozzeria creato da Brody Condon (“Need for Speed, – Cargo Cult”, 2005). Con “Speed” (2006), esamini un’altra forma di contaminazione virtuale, usando, in questo caso, un popolare gioco di corsa. Anche in questo caso, assistiamo a un curioso paradosso: mentre i racing games riproducono con maniacale accuratezza gli ambienti urbani celebrati dai media, il mondo cosiddetto ‘reale’ sembra aver ereditato alcuni elementi ludici. Sempre più automobili, per esempio, sono equipaggiate con navigatori satellitari GPS che visualizzano mappe e stradari con un’estetica tipicamente videoludica, per tacere degli innumerevoli veicoli che ormai montano console nei sedili posteriori… Ritieni che la diffusione dei racing games abbia in qualche modo influenzato il nostro modo di guidare e di visualizzare le informazioni ad alta velocità?
Aram Bartholl: La cosa divertente è che oggi i computer di cui sono equipaggiate le nostre vetture tentano di mascherare le nostre scarse abilità dietro al volante… Penso alla proliferazione di sistemi ABS, ESP, AAS… Guidare significa diventare una cosa sola con la tecnologia. L’auto è uno spazio iper-tecnologico. I nuovi parabrezza a proiezione elettronica richiamano i display HUD dei computer game. Le telecamere a raggi infrarossi che ci avvertono della presenza dei pedoni in situazioni di scarsa illuminazione ricorrono frequentemente nei videogiochi, pur essendo stati inventati per fini militari. Sarebbe interessante espandere i piccoli schermi di navigazione negli spazi pubblici. Penso a frecce galleggianti in città che visualizzano i nostri personali circuiti e tracciati, oppure oggetti illuminati sulla strada che interagiscono con la nostra auto. Altro che giocare a Need for Speed Underground nel sedile posteriore…
Aram Bartholl è uno degli artisti presenti nel volume GameScenes. Art in the Age of Videogames.
Link: Aram Bartholl
Testo: Matteo Bittanti
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